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Accordo sindacale del 30 luglio 2015, volto a favorire l’imbarco degli allievi ufficiali, sottufficiali e comuni.

Aniello Cuomo
1.Premessa
Il 30 luglio di quest’anno è stato stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi dei marittimi e degli armatori un accordo sindacale per favorire  l’imbarco degli allievi,  che è stato  salutato con enfasi dalle categorie interessate e dalla stampa perché avrebbe favorito l’ingresso dei giovani italiani nelle professioni del mare.
Le disposizioni più significative dell’accordo (a cui si fa rinvio)   hanno  previsto che l’imbarco degli allievi avvenga in soprannumero rispetto alle tabelle minime di sicurezza;  sia connesso ad un percorso formativo di addestramento di durata e contenuto conformi alla normativa nazionale ed internazionale in materia di formazione e abilitazioni professionali marittime, attuato sotto la responsabilità dell’ufficiale per l’addestramento di Compagnia e per l’addestramento a bordo, designato dall’armatore; che le ore giornaliere di attività a bordo non superino le otto ore per sette giorni a settimana; che i doveri ed i compiti a cui  sia  sottoposto l’allievo durante l’addestramento a bordo siano registrate nel quaderno di addestramento; che l’allievo percepisca per l’attività svolta a bordo un’indennità minima mensile onnicomprensiva, espressamente determinata.  Nell’accordo, viene previsto altresì che “ Ferma restando, ai sensi della normativa nazionale vigente, la natura prettamente formativa e di addestramento tipica dell’attività svolta a bordo dall’Allievo, a tale figura, che comunque non rientra nella definizione di lavoratore marittimo di cui all’art, 2, comma 1, lett. e) del D.lgs. 71/2015, in quanto non in possesso di un certificato di  competenza o di un certificato   di addestramento, verranno comunque estese le tutele  previdenziali, assistenziali e assicurative previste per i lavoratori marittimi.”
Nell’accordo, inoltre, al fine di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro dell’allievo ufficiale che ha conseguito l’abilitazione, viene prevista la possibilità di imbarcarlo come terzo ufficiale junior, con riconoscimento, nei primi dodici mesi di imbarco, di una retribuzione di ingresso composta dal minimo contrattuale e da tutti gli altri elementi retributivi previsti dal contratto collettivo per la qualifica di terzo ufficiale, ridotti, però, del  venti per cento.
Nonostante l’enfasi dimostrata dai sindacati e dalla stampa, non sono mancate polemiche e perplessità in merito a tale accordo, che secondo alcuni addetti ai lavori si porrebbe in palese contrasto con la  MLC  2006 (Maritime Labour Convention),  la convenzione internazionale  sul lavoro marittimo adottata a  Ginevra il 23 febbraio 2006.
I portatori delle censure  più severe  sono pervenuti alla conclusione che   le  competenti autorità marittime  non  dovessero accettare le convenzioni di arruolamento che  richiamassero  il contenuto normativo ed obbligatorio dell’accordo, poiché ritenuto in evidente contrasto con le norme della MLC, che le stesse autorità marittime sono tenute a far applicare.
In sostanza l’accordo sindacale si porrebbe in contrasto con la  MLC 2006, perché favorirebbe una disparità di trattamento retributivo nei confronti dei marittimi destinatari dello stesso, per i seguenti motivi: a) l’indennità mensile onnicomprensiva, così definita per rimarcare che l’allievo non sarebbe lavoratore marittimo,  è decisamente inferiore al salario minimo riconosciuto  dai precedenti accordi sindacali agli allievi; il valore economico delle indennità mensili onnicomprensive previste  dall’accordo sarebbe inferiore ai parametri  minimi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione; gli ufficiali alla loro prima esperienza di imbarco in tale qualifica ricevono una retribuzione decisamente inferiore a quella prevista dagli accordi sindacali precedenti.

Dopo aver dimostrato che l’autorità marittima chiamata a ricevere il contratto di arruolamento non  è tenuta in alcun modo  a  entrare nel merito dell’accordo sindacale, se ne valuterà il contenuto.

2. La ricezione del contratto di arruolamento da parte dell’Autorità marittima
 Per le navi di stazza lorda superiori a cinque tonneIlate, il contratto di arruolamento deve, a pena di nullità, essere fatto per atto pubblico, ricevuto nella Repubblica, dall’autorità marittima, e all’estero, dall’autorità consolare ed annotato sul ruolo di equipaggio o sulla licenza. Prima di essere sottoscritto, il contratto deve essere letto e spiegato al marittimo è
ciò deve constare dal contratto stesso. Se stipulato all’estero, ove manchi l’autorità consolare, il contratto deve, a pena di nullità, essere stipulato per iscritto, alla presenza di due testimoni, che vi appongono la propria sottoscrizione. Il contratto, conservato tra i documenti di bordo, è convalidato dall’autorità marittima o consolare nel primo porto in cui abbia sede una di tali autorità (cfr. artt. 328 e 329 del codice della navigazione; artt. 357 e 358 del regolamento  al codice della navigazione, parte marittima).
Il contratto di arruolamento è, quindi,  un negozio formale e solenne, stipulato in forma pubblica amministrativa, particolare formalità prevista, per i contratti in cui è parte la pubblica amministrazione, dall’ art. 16 della legge di contabilità dello Stato (Regio Decreto 18 novembre 1923, N. 2440 “Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato”); dall’art. 11, comma 13, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”[1]; nonché regolamentata dalle pertinenti norme del  regolamento di contabilità dello Stato (Regio Decreto 23 maggio 1924, n. 827).
 Nella forma pubblica amministrativa, al notaio si sostituisce un pubblico funzionario a ciò delegato che, nel ricevere tali atti, è tenuto ad osservare le norme prescritte dalla legge notarile, in quanto applicabili (cfr. art. 96 del regolamento di contabilità dello Stato, RD 827/1924).
Il contratto di arruolamento, pur stipulato in forma pubblica amministrativa,[2] è un contratto diverso da quelli previsti dalle norme di contabilità pubblica e dal codice dei contratti, per cui residuano dubbi sulla piena identità di funzioni tra l’ufficiale rogante, previsto dalle norme di contabilità dello Stato, ed il  competente ufficiale o  funzionario  dell’autorità marittima o consolare che riceve il contratto di arruolamento[3]. La distinzione appare importante, perché se si ammette che chi riceve l’atto assume in pieno le medesime funzioni dell’ufficiale rogante, allora egli è tenuto anche al rispetto delle disposizioni   della legge notarile (legge 16 febbraio 1913, n. 89), ed in particolare delle disposizioni contenute negli artt. 28, 47 e 49, nella parte in cui sono applicabili.
Preliminarmente si esamineranno gli artt. 47 e 49, la cui applicazione non sembra possa destare particolari preoccupazione neanche per il pubblico funzionario chiamato a ricevere il contratto di arruolamento;  successivamente, essendone l’applicazione più impegnativa, l’art. 28,che al primo comma, n.1), prevede il controllo di liceità dell’atto.[4]
L’art. 47 pone in capo al notaio il  compito di indagare la volontà delle parti per poi trasferirla in un atto che risponda pienamente a quella che è la loro volontà; l’art. 49, invece, all’accertamento delle identità delle parti. Nel primo caso, considerato che il contratto di arruolamento è un contratto tipico, il cui contenuto è previsto dalla legge, non mi sembra che sia prevista alcuna particolare attività da parte di chi lo riceve; nel secondo caso, invece, non mi sembra che l’accertamento dell’identità delle parti possa essere particolarmente complessa.
Ciò che merita maggiore attenzione è il controllo di liceità dell’atto a cui è tenuto il notaio o  l’ufficiale rogante secondo le disposizioni dell’art. 28, che prevedono la ricusazione dell’atto quando esso sia  espressamente proibito dalla legge, o manifestamente contrario al buon costume o all’ordine pubblico. Non è qui il caso di ripercorrere le tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza, basta solo dire che negli ultimi anni, con plurime decisioni, la Corte di Cassazione ha fatto concreta applicazione del principio della necessaria inequivocità della nullità, affermando che “Il divieto per il notaio di ricevere atti nulli sussiste solo quando la nullità dell'atto sia inequivoca ed indiscutibile, dovendosi intendere l'avverbio espressamente, che nell'art. 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 qualifica la categoria degli atti proibiti dalla legge, come inequivocamente; pertanto, tale divieto si riferisce a contrasti dell'atto con la legge che risultino in termini inequivoci…” (Cass. 12 novembre 2013, n. 25408; Cass. 11 marzo 2011, n. 5913; Cass. 20 luglio 2011, n. 15892; Cass. 13 ottobre 2011, n. 21202).
D’altronde anche l’origine e la ratio della norma[5] impongono di ritenere che al notaio non possono certo addossarsi compiti ermeneutici (con le connesse responsabilità) in presenza di incertezze interpretative oggettive. Invece l'irricevibilità dell'atto si giustifica quando il divieto possa desumersi in via del tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo ormai consolidato sul punto.[6]
Da quanto fin qui esposto risulta veramente arduo comprendere in base a quale presupposto logico o normativo si possa ricusare un contratto di arruolamento per la presunta  sussistenza di  fantomatici  vizi giuridici dell’accordo sindacale a cui esso faccia riferimento.  

3. L’ allievo è un lavoratore marittimo?

 L’oziosa querelle, in merito all’appartenenza o meno degli allievi alla categoria dei lavoratori marittimi, nasce dalle definizioni contenute nell’art. 2 del  decreto legislativo 12 maggio 2015, n.71, attuativo della direttiva 2012/35/UE, che ha modificato la direttiva 2008/106/CE, concernente i requisiti minimi di formazione della gente di mare.
L’art, 2, comma 1, lett. e) definisce  così il lavoratore marittimo:
“lavoratore marittimo: ogni persona che svolge, a qualsiasi titolo, servizio o attivita' lavorativa a bordo di una nave che ha ricevuto una formazione ed è in possesso di un certificato di competenza o di un certificato di addestramento o di una prova documentale;”
Il medesimo articolo, all’art. 2, comma 1, lett. l) dà invece  la seguente definizione di allievo ufficiale di coperta:
 “allievo ufficiale di coperta: una persona che sta effettuando l'addestramento per diventare ufficiale di coperta, designata come tale dalla legge nazionale o dai regolamenti;”
L’allievo ufficiale di macchina, con le dovute differenze, è definito allo stesso modo dall’art. 2, comma 1, lett. p).
Le differenti definizioni di allievo e lavoratore marittimo sarebbero all’origine dell’inciso contenuto all’interno dell’accordo sindacale, secondo il quale l’allievo non sarebbe un lavoratore marittimo.
Secondo coloro che criticano aspramente l’accordo, questa differenziazione, contrastante con tutte le altre norme che si riferiscono alla gente di mare ed ai lavoratori del mare ed in particolare con la MLC 2006, sarebbe all’origine del trattamento retributivo, ritenuto discriminante, riservato all’allievo.   
La querelle, come già anticipato, appare oziosa ed inutile ai nostri fini ,per il semplice motivo che le  definizioni contenute nell’art. 2 del citato decreto legislativo non hanno una valenza giuridica di portata generale, ma limitata all’applicazione delle norme in esso contenute; se così non fosse, allora sì potrebbero confliggere con gli  altri testi normativi, di portata più ampia, secondo i quali, qualsiasi persona che svolga attività lavorativa a bordo è lavoratore marittimo. Con tale decreto, emanato a seguito di procedura di infrazione da parte dell’Italia, si considera lavoratore marittimo colui il quale svolge sì lavoro a bordo ma che è addestrato e certificato conformemente agli standard di addestramento ed alle norme per la tenuta della guardia, previsti dalla STCW 2010.
Nel caso specifico dell’allievo è indubbio che sia un lavoratore subordinato che svolga la sua attività a bordo, viceversa non occorrerebbe la convenzione di arruolamento che è il tipico contratto di lavoro della gente di mare, ma egli  non un lavoratore formato. E’ in sostanza un lavoratore che per ottenere una particolare qualificazione professionale  necessita di un ulteriore apprendimento tecnico professionale attraverso una formazione sul lavoro.
Non a caso, in dottrina, è stato ritenuto che, tra i membri dell’equipaggio, gli allievi ufficiali sono  l’unica categoria di apprendisti conosciuta e disciplinata, sebbene appaia  piuttosto  insolito  che nell’ambito del diritto del lavoro  si sia in presenza di un contratto di tirocinio per una attività qualificabile come impiegatizia[7]. La dottrina richiamata, risalente agli anni ’60, si poggiava sulle norme che all’epoca   regolavano il contratto di apprendistato. Tali norme, nel corso degli anni, hanno subito sensibili modifiche che hanno portato alla creazione di varie figure di lavoratori che, in fase di inserimento nel mondo lavorativo, necessitano di un’appropriata formazione.
Alla luce dell’attuale  normativa in materia di apprendistato, attuativa del Jobs Act, introdotta col decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81,  il contratto di arruolamento degli allievi così come configurato dall’accordo sindacale in esame, parrebbe assumere le caratteristiche di un contratto di “apprendistato professionalizzante” ovvero come veniva definito dall’abrogato decreto legislativo 167/2011, “ apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere”. Pertanto, ogni questione in merito alla definizione giuridica della figura dell’allievo, finalizzata a dimostrare all’inadeguatezza della retribuzione a lui riconosciuta, appare superflua.

3. Trattamento economico peggiorativo rispetto ad  un precedente contratto collettivo.
Il dibattito sull’ammissibilità nel nostro ordinamento di contratti o accordi collettivi peggiorativi dei precedenti ha trovato il suo epilogo nel 2007, con l’intervento della Corte di Cassazione. Da allora ad oggi, l’opinione consolidata sia in dottrina che in giurisprudenza,  è che ”… non può essere messo in  discussione il potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori.” (Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro 5/6/2007 n. 13092)
L’integrale richiamo alla giurisprudenza della Corte sembra il modo migliore per illustrare i principi in base ai quali  essa è pervenuta a tale ultima conclusione:
“… in tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un diritto acquisito in forza della precedente contrattazione. Infatti, una cosa è l'indisponibilità, da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, ed altra è la pretesa, da parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva (ex plurimis, Cass. n. 4947 del 1991; n. 2155 del 1990; n. 1147 del 1988; n. 9175 del 1987; n. 5592 del 1986).Ciò perché le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 cod. civ., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidato all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia.
La stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte dei sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione "collettiva" della persistente corrispondenza della norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente, esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l'efficacia. Del resto, il nuovo contratto può risultare "peggiorativo" in alcuni aspetti, ma evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni sopravvenute.” (Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro 5/6/2007 n. 13092).
Tale giurisprudenza si è ancor più consolidata con le più recenti pronunce:
 “La disposizione contenuta nell’articolo 2077 del codice civile, secondo il quale le clausole meno favorevoli previste dal contratto individuale sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, riguarda unicamente i rapporti tra il contratto individuale e quello collettivo e non si applica alle disposizioni, anche peggiorative, introdotte da parte di un successivo contratto collettivo, con l’unico limite dei diritti quesiti che siano già entrati definitivamente a far parte del patrimonio individuale del prestatore di lavoro. (Cass. 19 febbraio 2014 n. 3982)
“E' opinione seguita, oltre che in dottrina anche in giurisprudenza, che alle parti sociali è consentito, in virtù del principio generale dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 cod. civ., prorogare l'efficacia dei contratti collettivi, modificare, anche in senso peggiorativo, i pregressi inquadramenti e le pregresse retribuzioni - fermi restando i diritti quesiti dei lavoratori sulla base della precedente contrattazione collettiva - nonché disporre in ordine alla prevalenza da attribuire, nella disciplina dei rapporti di lavoro, ad una clausola del contratto collettivo nazionale o del contratto aziendale, con possibile concorrenza delle due discipline.”  (Cassazione civile sez. lav., 15 settembre 2014 n. 19396)
Con questa sentenza la Corte si spinge oltre, ammettendo la reformatio in pejus anche del contratto aziendale, in virtù del principio secondo il quale Il concorso tra la disciplina contrattuale collettiva nazionale e quella aziendale “... va risolto non secondo i principi della gerarchia e della specialità propria della fonte legislativa, bensì accertando quale sia l'effettiva volontà delle parti, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutti pari dignità e forza vincolante, sicché anche i contratti aziendali possono derogare in peius ai contratti nazionali, senza che osti il disposto dell'art. 2077 c.c., con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, che non possono pertanto ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa contrattuale, di eguale o di diverso livello (cfr. tra le tante: Cass. 2 aprile 2001 n. 4839, cui adde, Cass. 7 febbraio 2004 n. 2362 e Cass. 18 settembre 2007 n. 19351).” (Cassazione civile sez. lav., 15 settembre 2014 n. 19396).
La giurisprudenza richiamata è stata ulteriormente confermata qualche mese fa, dalla sentenza della Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 18 giugno – 29 ottobre 2015, n. 22126.
4. Parità di trattamento retributivo a parità di mansioni
L’attuale, consolidato e pacifico  orientamento giurisprudenziale della suprema Corte in materia  si fonda sull’inesistenza di un diritto soggettivo alla parità di trattamento retributivo da parte del lavoratore subordinato, atteso che “… una situazione di disparità è anzi legislativamente prevista, laddove l'art. 2077 II comma c.c. impone la sostituzione con le norme collettive delle clausole difformi contenute nei contratti individuali, salvo che tali clausole siano più favorevoli al lavoratore. Una situazione iniziale di disparità di trattamento a parità di mansioni non solo non è vietata, ma è addirittura disciplinata dalla legge, che prevede un allineamento dei contratti individuali di lavoro alla disciplina collettiva non in tutti i casi, ma solo in quelli in cui il contratto individuale contenga disposizioni meno favorevoli per il lavoratore.”(Cassazione Civile, SS.UU. 17 maggio 1996, n.4570). Prima di tale decisione, i cui principi sono  a tutt’oggi pacifici e consolidati, essendo stati più volte  confermati dalla successiva giurisprudenza in materia, la Corte pur senza mai mettere in discussione l’inesistenza di un diritto soggettivo alla parità di trattamento, non sempre ha avuto un orientamento univoco. In una  prima fase, antecedente al 1989, si è ritenuto che  il principio della parità di trattamento non trovasse alcun sostegno nelle fonti legislative, anche di diritto comunitario e internazionale, recepite dall'ordinamento italiano e non fosse in particolare deducibile nè dall'art. 36 della Costituzione (che si limita a fissare il criterio della proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparizione intersoggettiva) nè dall'art. 3 (che stabilisce soltanto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non certo nell'ambito dei rapporti privatistici, quali appunto i rapporti di lavoro privato). Dopo la sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 1989 n. 103[8], alcune sentenze della sezione Lavoro,  interpretandola  nel senso che  essa avesse affermato il principio della parità di trattamento, si discostavano dalla giurisprudenza precedente ed affermavano la esistenza cogente di questo principio, mentre altre sentenze, dando una diversa lettura della sentenza interpretativa di rigetto della Corte delle leggi, mantenevano ferma la precedente giurisprudenza. La sentenza, come ritenuto dalla prevalente dottrina, non aveva affermato l’ esistenza di detto principio nell'art. 41 Cost., ma  aveva effettuato  solo una ricognizione delle disposizioni del codice civile e dei precetti costituzionali vigenti in materia e non aveva ritenuto che l'art. 41 della Cost. fosse una  norma di diritto positivo che imponesse la parità di trattamento, ma che la tutela della dignità del lavoratore esclude che le differenze di trattamento possano essere dovute a mera discrezionalità o addirittura di arbitrio: "sono tollerabili e possibili disparità e differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque ragionevoli"; riaffermando che il giudice deve compiere l'accertamento ed il controllo dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi e che  egli applica la legge, la contrattazione, e corregge gli errori di inquadramento.[9]
Comunque il contrasto giurisprudenziale insorto fu composto dalle Sezioni Unite con le sentenze 6030, 6031, 6032, 6033 e 6034 del 29 maggio 1993 (cui bisogna aggiungere la quasi coeva Cass. 1 ottobre 1993 n. 9804) con l'adesione alla giurisprudenza tradizionale della Corte.
La giurisprudenza successiva della sezione lavoro si è in parte e con motivazioni diverse allontanata dalle argomentazioni svolte nelle decisioni delle Sezioni Unite, giungendo a soluzioni che in alcuni casi potevano  apparire contrastanti con quelle sopra richiamate, per cui per uniformare l’orientamento giurisprudenziale si  è resa necessaria una nuova pronuncia a sezioni unite  della Corte di Cassazione, concretizzatasi nella sentenza n. 4570, in data  17 maggio 1996, richiamata in esordio.
La giurisprudenza successiva della Corte ha riaffermato i principi esposti dalla decisione n. 4570 del 1996, condividendone le argomentazioni (Cass., 5 ottobre 1998 n. 9867; 24 ottobre 1998 n. 10598; 7 gennaio 1999 n. 62; 25 settembre 1999 n. 10581; 5 maggio 2000 n. 5623; 19 giugno 2001 n. 8296; 8 gennaio 2002 n. 132; 2 dicembre 2003, n.18418 ).
Alla luce della giurisprudenza esaminata si può quindi concludere che non esiste un diritto soggettivo alla parità di trattamento retributivo da parte del lavoratore subordinato, atteso che “… una situazione di disparità è anzi legislativamente prevista, laddove l'art. 2077 II comma c.c. impone la sostituzione con le norme collettive delle clausole difformi contenute nei contratti individuali, salvo che tali clausole siano più favorevoli al lavoratore. Una situazione iniziale di disparità di trattamento a parità di mansioni non solo non è vietata, ma è addirittura disciplinata dalla legge, che prevede un allineamento dei contratti individuali di lavoro alla disciplina collettiva non in tutti i casi, ma solo in quelli in cui il contratto individuale contenga disposizioni meno favorevoli per il lavoratore.”(Cassazione Civile, SS.UU. 17 maggio 1996, n.4570).

5. La disparità di trattamento  discriminatoria.
Il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, contenuto nell’art. 3 della Costituzione, costituisce uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento ed il presupposto logico su cui si deve fondare ogni ordinamento democratico. In base  al principio di uguaglianza,  la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in al maniera razionalmente diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate: «La giurisprudenza di questa Corte [Costituzionale] è costante nel senso che il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni. » (Corte Costituzionale sent. n. 15 del 1960), poiché “l'art. 3 Cost., [va] inteso come divieto di disparità di trattamento di situazioni simili e come esclusione di discriminazioni irragionevoli” (Corte Costituzionale sent. n. 96 del 1980).
Secondo il costante orientamento della Corte, si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del legislatore ( Corte Costituzionale sent. n. 340 del 2004).
Le differenze di trattamento retributivo possono ritenersi illecite, quindi, soltanto se violano  il divieto di discriminazione, così come individuato e definito dal diritto positivo, considerato che non  si riscontrano nella Costituzione e nella legislazione ordinaria norme imperative, che accolgano la regola della parità di trattamento economico e normativo, con particolare riguardo ai lavoratori subordinati[10], e che costituisce ius receptum in seno alla giurisprudenza della Corte [di Cassazione] l'affermazione dell'inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito di rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le ato medesime mansioni, atteso che l'art. 36 Cost., si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva a che l'art. 3 Cost., impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati[11].
Nel nostro ordinamento, le norme relative al divieto di discriminazione si rinvengono nei  decreti legislativi 215/2003; 216/2003; 145/2005, i quali recepiscono rispettivamente le seguenti direttive comunitarie: “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parita' di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”; “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”; “Attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di parita' di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro”.
La portata dei tre decreti legislativi è sostanzialmente identica, in quanto tendono ad   attuare la parità' di trattamento tra le persone indipendentemente: a) dalla razza e dall'origine etnica; b) dalla religione dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età' e dall'orientamento sessuale; c) dalla differenza tra uomo e donna. Il decreto 145/2005, contenente norme  in materia di parità' di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, è integrativo di norme già esistenti. In tale ultimo decreto vengono considerati atti discriminatori anche le molestie sessuali.
Tutti e tre i decreti contengono la nozione del principio di parità di trattamento e del  divieto di discriminazione  diretta ed indiretta, individuandone altresì, l’ambito di applicazione.
Le norme contenute nei decreti consentono, quindi di definire principio di parità di trattamento l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica, della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età' del sesso o dell'orientamento sessuale. I concetti di discriminazione diretta ed in diretta sono anch’essi definiti dalle norme ed anche chiaramente, ma la definizione che segue appare  più esaustiva:   “La discriminazione diretta si verifica con qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, di tipo discriminatorio e comunque con l’attribuzione di un trattamento irragionevolmente meno favorevole ad un soggetto o ad una categoria di soggetti rispetto ad altri che si trovano in situazione analoga…; si ha discriminazione indiretta, invece, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere un individuo o una categoria di persone in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri individui o categorie di persone. Si tratta di una forma più subdola di discriminazione, che, per esempio, può verificarsi se: 1) un datore di lavoro decidesse di escludere candidati che vivono in una specifica area della città, che è quella dove vivono molti Rom, sicché la selezione operata dal potenziale datore di lavoro sarebbe dunque svantaggiosa per gli eventuali candidati Rom, che, di conseguenza, verrebbero discriminati in maniera indiretta; 2) se in un pubblico concorso per un lavoro ove siano richiesti particolari requisiti di prestanza fisica (come accade in campo militare) fossero previsti dei requisiti di altezza unici per tutti i candidati, senza tenere conto che l’altezza media delle donne è diversa da quella degli uomini.”[12]
Si badi bene che nei citati testi normativi sono previste comunque deroghe al principio di parità di trattamento, quando  le differenze di trattamento, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità' legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.
Da quanto finora esposto non sembra possano nutrirsi dubbi in merito a quei casi  di disparità di trattamento retributivo che possano integrare fattispecie illecite, rinvenibili nelle norme sopra esaminate e che sono il portato di principi contenuti  nell’ordinamento giuridico sovranazionale,[13] a cui la stessa Convenzione MLC2006 fa riferimento.[14]
 
6. Retribuzione proporzionata e sufficiente
La retribuzione è il compenso  economico che il datore di lavoro è tenuto  a corrispondere in maniera continuativa ed obbligatoria al prestatore di lavoro subordinato. Essa costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro  a fronte della prestazione fornita dal lavoratore e va a connotare il rapporto di lavoro come un contratto oneroso di scambio (o a prestazioni corrispettive)[15]. Considerato che la retribuzione è caratterizzata da una struttura composita che promana da fonti legali o contrattuali esterni al contratto di lavoro individuale, non tutti i compensi economici che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al prestatore di lavoro hanno natura retributiva. L’individuazione delle voci di natura retributiva che compongono la  retribuzione è devoluta, di regola e con le sole eccezioni espressamente risultanti dalla legge,  alla contrattazione collettiva e, nel rispetto di questa, al contratto individuale, non esistendo nel nostro ordinamento un   principio generale e inderogabile di omnicomprensività , sancito, invece, dal legislatore solo con riguardo ad alcuni emolumenti.[16] Pertanto, con riferimento al caso specifico del modulo contrattuale previsto per l’allievo ufficiale dall’accordo sindacale del 30 luglio 2015, è irrilevante che il compenso economico per questi previsto sia definito non salario, ma  indennità, perché se è vero che il termine indennità viene comunemente  inteso  come attribuzione patrimoniale dell’imprenditore al prestatore di lavoro, non avente carattere retributivo, è altrettanto vero che è una denominazione che talvolta viene data all’intera retribuzione[17]; nel caso specifico, il termine non poteva sembrare più appropriato, considerato che trattasi di un contratto di lavoro a causa mista, in quanto alla prestazione lavorativa, si aggiunge l’attività formativa.
La retribuzione, secondo le  disposizioni contenute nell’ art.36 della Costituzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità del  lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
La norma dell’art. 36 della Costituzione, pur avendo un contenuto  esclusivamente programmatico, in assenza dell’intervento del legislatore ordinario, ha assunto negli anni un contenuto di immediata applicabilità per via giudiziale, per effetto degli incisivi interventi dei giudici del lavoro, i quali già dagli anni cinquanta hanno  individuato nell’art. 36 il fondamento positivo per la dichiarazione di nullità delle pattuizioni individuali deteriori rispetto agli standard retributivi negoziati in sede sindacale, con la conseguente rideterminazione giudiziale, e 2099 del codice civile,  della retribuzione dovuta al lavoratore.[18]
L’orientamento giurisprudenziale tuttora prevalente, si concreta nell’affermazione secondo cui la retribuzione del lavoro subordinato in un determinato settore deve essere determinata assumendosi come parametro lo standard minimo risultante dal contratto collettivo nazionale stipulato per lo stesso settore; e quando non possa farsi riferimento ad alcun contratto collettivo stipulato per il settore specifico, deve farsi riferimento al contratto stipulato per un settore affine.[19]
Nel determinare la retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell'art. 36 cost., il giudice di merito, assunti i minimi salariali del contratto collettivo nazionale quali parametro di riferimento, può legittimamente, secondo una valutazione non censurabile in Cassazione se non sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione, discostarsi da essi in senso riduttivo, tenuto conto di una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali familiari del lavoratore, le mercedi praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell'azienda (nella specie, sostiene la S.C. che il ricorrente non avrebbe posto in adeguato rilievo le ragioni per cui l'indagine sulla entità delle "retribuzioni correnti nella zona" renderebbe illegittima la riduzione del venti per cento dei minimi salariali nazionali operata dal giudice di merito).(Cass. civ., sez. lavoro, 09/08/1996, n.7383).
Come è evidente dalla lettura della massima sopra riportata, ove il giudice del merito intenda discostarsi dalle indicazioni del contratto collettivo, ha l'onere di fornire opportuna motivazione, mentre costituisce specifico onere del datore di lavoro quello di indicare gli elementi dai quali risulti la inadeguatezza, in eccesso, delle retribuzioni contrattualmente previste in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore. (ex plurimis Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro , 4 dicembre 2013, n. 27138).


7. Conclusioni
Come è agevole rilevare dai primi paragrafi del presente studio, il ruolo dell’autorità marittima chiamata a ricevere le convenzioni di arruolamento, stipulate in base all’accordo sindacale più volte citato, va  limitato  ad un controllo sulla regolarità formale degli atti presentati ed alle altre incombenze previste dal codice della navigazione e dal relativo regolamento. Essa non può entrare nel merito dell’accordo sindacale, considerato che “Gli interessi che presidiano alla contrattazione collettiva, alla sua validità ed alla sua "forza", sono non solo particolari, e cioè del singolo lavoratore (evitandogli la concorrenza all'interno della categoria professionale), e del datore di lavoro (consentendogli la organizzazione e la programmazione dell'attività imprenditoriale), ma anche più generali, vale a dire del sindacato (che in essa vede espressa la sua rappresentatività) o delle organizzazioni datoriali (che hanno riguardo a situazioni generali di mercato, per settore, anche con riferimento alla concorrenza internazionale), e, infine, della stessa comunità per la quale la presenza sindacale è presidio non secondario della libertà democratica. Proprio ciò vale a spiegare la tendenza espansiva della validità erga omnes dei contratti collettivi, della quale la giurisprudenza è stata interprete.
È intuitivo, pertanto, che nella contrattazione collettiva confluiscono fattori di grande rilevanza per ognuna delle parti contraenti, e che ognuna può persino avere interesse a non rendere nota; la dinamica contrattuale, complessa, sottoposta talora anche a lacerazioni, ben difficilmente è ricostruibile a posteriori, per così dire "in vitro", in un giudizio di razionalità, per il quale, a ben vedere, sono solo parzialmente presenti gli elementi di conoscenza.
A ciò si aggiunga che la trattativa per un contratto collettivo ha una sua "globalità", di guisa che si procede per successive concessioni per giungere ad un punto di incontro; ed ogni parte acconsente a determinate clausole, retributive o di inquadramento, anche svantaggiose, che considera meno importanti dal proprio punto di vista, pur di ottenere l'accordo su altre clausole alle quali assegna prevalente significato: irrazionale sarebbe isolare una singola clausola e valutarla indipendentemente da un contesto della trattativa assai più ampio.”[20] 
Anche perché, come si è dimostrato, entrare nel merito delle questioni giuridiche affrontate, significa entrare in un campo minato dove lo stesso Giudice è costretto a muoversi con fatica.


        
 Note


[1] L’Autorità Nazionale Anticorruzione , con parere AG 43/2010 del 27 novembre 2011,  ha ritenuto compatibili gli artt. 16 e 17 del R.D. n.2440/1923  con l’art. 11, comma 13, del d.lgs. n. 163/2006 , escludendone l’abrogazione tacita .
[2] La speciale disciplina del codice della navigazione che prevede la forma pubblica per la stipula del   contratto d’arruolamento  ha radici storiche, in quanto, con tale formalità si intendevano vietare antiche pratiche diffuse nella marineria mercantile e militare, rassomiglianti più` al rapimento o alla riduzione in temporanea schiavitù.
(Pietro Ichino, “Soggetti e oggetto, sicurezza del lavoro, retribuzione, qualità, luogo e tempo della prestazione” in “Il contratto di lavoro-Vol. II”, cap. VIII paragrafo 197, http://archivio.pietroichino.it)

[3] In dottrina  c’è divergenza di vedute sul significato da attribuire alla prevista partecipazione della pubblica autorità alla stipulazione del contratto di arruolamento. Secondo alcuni, si tratterebbe di un intervento con semplice funzione probatoria e documentale [Torrente, Arruolamento (contratto di) ED, III, 83]; secondo altri, invece, il ruolo spettante all’autorità sarebbe ben più ampio e consisterebbe nel verificare la sussistenza di tutte le condizioni indispensabili per l’instaurazione di un valido  rapporto di arruolamento, con riferimento sia ai requisiti che il lavoratore arruolando deve possedere, sia al contenuto del regolamento contrattuale (Gaeta, Forma e contenuto del contratto di arruolamento, RDN, 1971, I, 5). Biagio Grasso, Codice della Navigazione (un commento a cura di), UTET, Torino, 1997.
[4] “Il notaro non può ricevere o autenticare atti: 1) se essi sono espressamente proibiti  dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico;…”
[5] Nella relazione del Guardasigilli alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1912, si esprime il timore di lasciare “adito al capriccio del notaro, lasciandolo arbitro di stipulare un atto di cui fosse richiesto”, e si afferma di avere ovviato a ciò rendendo il rifiuto legale “soltanto se l’atto fosse espressamente proibito dalla legge o manifestamente contrario al buon costume o all’ordine pubblico”. La relazione del Guardasigilli alla precedente legge 25 luglio 1875 n. 2786, il cui art. 24 era di tenore identico all’attuale art. 28 n. 1, recita “poiché non sempre è facile il giudicare se una convenzione sia o no contraria al buon costume, e specialmente se sia o no contraria alla legge, l’articolo in esame, onde, per quanto sia possibile, non addurre troppe gravi responsabilità’ sul notaro, ha dichiarato che egli deve ricusare l’atto soltanto allorché è’ espressamente proibito dalla legge o manifestamente contrario al buon costume”. (PETRELLI G., Art. 28 della legge notarile - Espresso divieto di legge e orientamenti giurisprudenziali non consolidati (Nota a T. Verbania, 21 aprile 1997 e A. Torino, 17 luglio 1997). Riv. not., 1997, 1228.)
[6] Cass. 13 ottobre 2011, n. 21202
[7] Enrica Minale Costa “Lavoro nella navigazione” in “Digesto”, Discipline Privatistiche-Sezione Commerciale, Utet, Milano, 1992.  L’autrice si riporta ad un’opera risalente agli anni ’60, indicata in  apposita nota bibliografica che si ritiene utile trascrivere:    V. Rudan, Il contratto di tirocinio, Milano 1966, 103 ss.. nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la disciplina dello speciale contratto di tirocinio trova la sua fonte nella legge 2 aprile 1968, n. 424, che ha modificato e integrato la legge 19 gennaio 1955, n. 25.    
[8] La Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi sull’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099, 2103 del codice civile, nella parte in cui essi avrebbero consentito all'imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo,  comprimendo, in tal modo,  il diritto dei lavoratori al rispetto della loro dignità umana, in spregio dei limiti che l’art. 41 della Costituzione impone alla libertà di iniziativa economica. La Corte ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale
[9] Cassazione Civile SS.UU. 29 maggio 1993, n.6030
[10] Cassazione civile sezioni unite 17 maggio 1996  n. 4570
[11] Cassazione civile , sez. lav., 19 luglio 2007, n. 16015
[12] Lucia Tria “Il divieto di discriminazione tra Corte di Strasburgo e Corti interne” in  http://www.europeanrights.eu/public/commenti/LUCIA_TRIA_DIVIETO_di_DISCRIMINAZIONE_2014.pdf
[13] L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata a Nizza il 7 dicembre del 2000 vieta infatti “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
[14] Cfr. il paragrafo 4 della Linea guida B.2.2.2-Calcolo e pagamento:
“National laws and regulations  adopted  after consulting the representative shipowners’ and  seafarers ’organizations or, as appropriate collective agreements should take into account the following principles:
a) equal remurenation for work  of equal value  should apply to all seafarers employed on the same ship  without discrimination based upon race, colour, sex, religion, political opinion, national extraction or social origin;”  
[15] M. Ciaccioni, in Consulenza-online Buffetti, Roma, 17/03/2014 
[16] Cfr; Cass. civ. Sez. lavoro, 27 agosto 2015, n. 17248; Cass. 15 marzo 2010, n. 6204; Cass. 6 febbraio 2008, n.2781; Cass. civ., sez. unite, 1° aprile 1993, n.3888.
[17] Cfr. “Dizionario Enciclopedico Italiano “ Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,  Roma, 1970
[18] Pietro Ichino, “ La giusta retribuzione” in “Il contratto di lavoro-Vol. II”, cap. X paragrafo 236, http://archivio.pietroichino.it
[19]  Ex plurimis Corte di Cassazione Sezione civile, lavoro , 4 dicembre 2013, n. 27138.
[20] Cassazione civile sezioni  unite  29 maggio 1993 . 6030

Avv. Aniello Cuomo

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