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Faito – Chiude la funivia


La leggenda lo vuole un tempo abitato nel sottobosco da streghe e folletti. Tra faggi, abeti e pini che si alternavano ai fiori di campagna che in primavera si tingono di giallo. Un luogo d’incanto e di memoria, terra dei suoni della natura e del candore della neve, il Faito, si eleva tra la costiera amalfitana e il Golfo di Napoli, con lo sguardo sul Vesuvio.

Un luogo che per l’aria salubre doveva diventare la meta turistica per quei visitatori in cerca di frescura e tranquillità, immersi in una natura incontaminata, dopo un susseguirsi di curve e tornanti scavati nella roccia che da Moiano si susseguono fin sulla vetta. E, pertanto, luogo di forte richiamo turistico, soprattutto d’estate, per la presenza di pensioni e punti di ristoro, di impianti sportivi e spazi attrezzati per degustare prodotti tipici della terra.

Lo ricordava il Corriere di Napoli del 25 agosto 1952, facendo la cronaca dell’inaugurazione della funivia che univa Castellammare di Stabia con la cima della montagna. Una cronaca destinata però a rimanere un auspicio. Dopo un periodo di splendore, durato poco più di trent’anni, cominciava infatti il lento declino del Faito: i numerosi incendi, la strada dissestata da Castellammare fino al Belvedere, l’incuria del sottobosco, il rapimento di Angela Celentano. Cinque anni fa si è aggiunta la crisi economica, ma bene o male si tirava avanti.

Quest’anno la chiusura della funivia ha dato il colpo di grazia. “Il Faito è morto per l’incapacità delle istituzioni ma anche per l’inerzia dei cittadini che non si ribellano a questo stato di degrado e di abbandono”, commenta Renato Cilento, imprenditore alberghiero di Moiano, il casale più esteso del comune di Vico Equense che comprende anche la montagna.

Oggi la sola manifestazione sul palcoscenico del Faito è il festival del documentario che si tiene nella seconda metà di agosto; un evento che dovrebbe portare sulla montagna diverse centinaia di appassionati di documentari e di film sperimentali. E che servirà a riempire quelle poche pensioni che ancora resistono ai venti di crisi.
Eduardo Cagnazzi

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